Una giusta inquietudine davanti ai problemi del nostro tempo, da affrontare con il realismo della speranza proprio dei cristiani e la buona politica di cui è capace il nostro territorio: questo il nucleo del pronunciamento dell’Arcivescovo, di cui proponiamo un’ampia sintesi e il testo integrale, oltre a un’intervista a monsignor Delpini
di Pino NARDI
Leggi qui il testo integrale del Discorso
«Il linguaggio di Milano e di questa nostra terra è la fierezza di poter affrontare le sfide, è la generosità nell’accogliere e nel condividere, è la saggezza pensosa che di fronte alle domande cerca le risposte, è la franchezza nell’approvare e nel dissentire, è la compassione che non si accontenta di elemosine ma crea soluzioni, stimola a darsi da fare, inventa e mantiene istituzioni per farsi carico dei più fragili». Esprime così in sintesi i suoi sentimenti più profondi l’Arcivescovo di Milano, monsignor Mario Delpini, nel Discorso alla città pronunciato oggi pomeriggio nella Basilica di Sant’Ambrogio, alla vigilia della festa del Santo patrono. Ad ascoltarlo, amministratori pubblici, politici e responsabili del bene comune che operano nel territorio della Diocesi.
E gli altri? Tra ferite aperte e gemiti inascoltati: forse un grido, forse un cantico è il titolo scelto dall’Arcivescovo. Un punto di domanda nel titolo, «perché voglio fare l’elogio dell’inquietudine, voglio condividere l’aspetto promettente di un realismo che custodisce la speranza e che crede nella democrazia e nella vocazione della politica».
Chi sono gli altri?
Ma chi sono in particolare gli altri per il pastore della Chiesa ambrosiana? «Mi sembra che tutti coloro che hanno responsabilità vivano quell’inquietudine provocata dall’interrogativo: e gli altri? E gli altri, i bambini che subiscono violenze e abusi? Le altre, le donne maltrattate, umiliate, picchiate in casa? E gli altri, gli anziani soli, chiusi nelle loro case per paura, per abitudine, perché impossibilitati a partecipare alla vita sociale? Gli altri, quelli che non hanno voce, quelli che abitano la città senza che noi ce ne accorgiamo? Gli altri, quelli per cui non abbiamo stanziato risorse sufficienti? E gli altri, quelli che non vanno a scuola, quelli che non lavorano? E gli altri, quelli che non hanno casa, quelli che non hanno assistenza sanitaria? E gli altri, quelli che lavorano troppo e sono pagati troppo poco? E gli altri, quelli che subiscono prepotenze, estorsioni, ricatti dalla malavita organizzata che si insinua dovunque può conquistarsi profitti e potere? E gli altri, i ragazzi che si associano per commettere violenze, per rovinare i muri della città e le cose di tutti, per rovinare la propria giovinezza e rendersi schiavi di dipendenze spesso irrimediabili?».
Monsignor Delpini confessa che trova «sempre più insopportabile il malumore. Trovo irragionevole il lamento. Trovo irrespirabile l’aria inquinata di frenesia e di aggressività, di suscettibilità e risentimento».
L’elogio dell’inquietudine
Nella sua analisi l’Arcivescovo parte dall’elogio dell’inquietudine «che bussa alle porte della paura. La paura serpeggia nella città e nella nostra terra: è la paura di difficoltà reali che si devono affrontare e non si sa come; è la paura indotta dalle notizie organizzate per deprimere, per guadagnare consenso verso scelte d’emergenza, senza una visione lungimirante; è la paura dell’ignoto; è la paura del futuro. La paura induce a chiudersi in se stessi, a costruire mura di protezione per arginare pericoli e nemici, ad accumulare e ad affannarsi per mettere al sicuro quello di cui potremmo aver bisogno, “non si sa mai”. Alle porte della paura bussa l’inquietudine con la sua provocazione: e gli altri?».
La città che corre
Un’inquietudine che bussa a «una città che corre, la città che riqualifica quartieri e palazzi, la città che fa spazio all’innovazione e all’eccellenza, la città che seduce i turisti e gli uomini d’affari, la città che demolisce le case popolari e costruisce appartamenti a prezzi inaccessibili. Dove troveranno casa le famiglie giovani, il futuro della città? Dove troveranno casa coloro che in città devono lavorare, studiare, invecchiare?».
Un’inquietudine che bussa «alle porte dei centri di ricerca dedicati all’organizzazione del lavoro che controlla la produttività e ignora gli orari della famiglia, che controlla l’ottimizzazione delle risorse e ignora la qualità di vita delle persone, che prepara strumenti per valutare la sostenibilità ambientale e ritiene secondaria la sostenibilità sociale. E gli altri? Come potranno vivere quegli onesti lavoratori che si ritrovano a fine mese una paga che non copre le spese che la vita urbana impone loro?».
Delpini avanza una critica all’egoismo di una società ricca a scapito di altri: «Come si può giustificare un sistema di vita che pretende il proprio benessere a spese delle risorse altrui? Come si può immaginare una civiltà che si chiude e muore e lascia morire popoli pieni di vita?».
Attenzione alla complessità
Sono interrogativi e affermazioni, proposti dall’Arcivescovo, che esprimono l’elogio di chi non affronta con semplicismo e superficialità questioni complesse: «Mi faccio voce della comunità cristiana, della tradizione europea e italiana, della lungimiranza sui destini della civiltà occidentale e, d’altra parte, non ho la pretesa di giudicare sbrigativamente o di disporre di ricette risolutive. Elogio l’inquietudine perché pensieri, decisioni, interventi siano attenti alla complessità e là dove sembra produttivo e popolare essere sbrigativi e semplicisti, istintivi e presuntuosi, l’inquietudine suggerisca saggezza e disponibilità al confronto, studio approfondito e concertazione ampia, per quanto possibile».
L’elogio del realismo della speranza
Fin qui l’inquietudine manifestata dall’Arcivescovo, che però «non è un’inclinazione depressiva che può paralizzare il pensiero e l’azione nell’incertezza e nello scontento. È piuttosto un rimedio per contrastare la soddisfazione narcisista che si assesta in un egocentrismo rovinoso. Il confronto con “gli altri”, l’ascolto del gemito, la costruzione di rapporti fondati sulla stima, sull’attenzione, sulla riconoscenza, sono fattori di quell’umanesimo realista che rende desiderabili la convivenza civile e i rapporti tra i popoli».
Desiderare la vita buona
L’inquietudine e il realismo sono «le tracce della speranza che è stata seminata nella vicenda umana» e che non è «un’ingenuità consolatoria, è piuttosto la risposta alla promessa che chiama a desiderare la vita, la vita buona, la vita nella pace, la vita dono di Dio. Il realismo della speranza ama sostare in preghiera e in silenzio, resiste alla tentazione della superficialità e della fretta, percorre la via della sincerità, evita le maschere, il conformismo, la viltà».
Vocazione alla fraternità
Diverse le motivazioni che propone l’Arcivescovo con l’elogio del realismo della speranza. Innanzitutto quando «riconosce la vocazione alla fraternità iscritta in ogni vita umana. Il realismo della speranza smaschera l’illusione dell’individualismo, forse la radice più profonda dell’infelicità del nostro tempo». Una critica molto forte a un modo di vivere di chi pensa solo a se stesso e che ha concrete ripercussioni nelle scelte di vita. Per esempio, provocando il gelo demografico: «Il realismo della speranza rende desiderabile che continuino a nascere da un papà e da una mamma bambini e bambine, che siano circondati da ogni cura e introdotti nella vita come promessa di futuro. Si può comprendere così che una mentalità individualistica che censura la speranza sia tra le ragioni profonde della crisi demografica che invecchia la nostra società».
L’emergenza educativa
E ancora l’elogio del realismo della speranza che consente di affrontare l’emergenza educativa, non cercando «rimedi in interventi specialistici, in supporti farmacologici, in richiami moralistici. Più che di emergenza e di disagio si deve forse parlare di una invocazione che le giovani generazioni ci rivolgono: “Dateci buone ragioni per diventare adulti!”».
Tutela della salute e cura dei più fragili
Propone inoltre l’elogio del realismo della speranza «che consente di affrontare la tutela della salute e il prendersi cura nelle situazioni limite della malattia. Vi è un’attesa quasi onnipotente della vita, nella dis-attesa della morte (rimossa). Pure nella complessità, nella frammentazione e nella frammentarietà del vivere postmoderno, il come è altamente presidiato e coltivato. È più fragile la dimensione del dove della cura, soprattutto nella malattia cronica, degenerativa e irreversibile. Essa appare sempre più come un non luogo: la malattia cronica è come consegnata al suo destino di irreversibilità e di contingenza. La cura si fa incerta, tra i confini del curabile e del (non) guaribile».
Si cresce insieme
Tipico del territorio milanese e lombardo è il forte tessuto economico: «Il sistema produttivo, le qualità dell’imprenditoria, l’eccellenza dei prodotti, sono motivi di fierezza e meriti riconosciuti. Il realismo della speranza convince a costruire rapporti che non si limitino al dare e all’avere, al vendere e al comprare, ma diventino alleanze, interesse per il bene reciproco, rispetto per tutti gli ambienti, onore per tutte le culture».
Delpini delinea una globalizzazione che rifiuta i conflitti, a maggior ragione quelli armati: «Le esperienze disastrose delle guerre convincono dell’assurdità dei conflitti e dell’insensatezza di considerare nemiche persone con cui si è lavorato e collaborato in modo così costruttivo. Le esperienze disastrose di imprese di rapina che saccheggiano territori e riducono popoli in condizioni di schiavitù e di miseria devono suscitare una opposizione determinata dalla persuasione che o si cresce insieme o si perisce tutti».
L’assurdità della guerra
Dunque, per l’Arcivescovo è necessario porre l’attenzione a consolidare relazioni internazionali impostati sul rispetto e la costruzione di una pace duratura: «Voglio fare l’elogio del realismo della speranza che interpreta i rapporti tra le nazioni come condizione necessaria per rendere abitabile il pianeta e promettente il futuro. La storia che viviamo sembra offrire ragioni per scoraggiare aspettative di pace, l’avidità e la menzogna muovono all’aggressività, scatenano guerre, seminano odio e distruzione. Non possiamo lasciarci rubare la speranza: crediamo alla promessa della vocazione alla fraternità di tutti gli abitanti del pianeta. Non possiamo rinunciare al realismo: percorriamo e incoraggiamo a percorrere le vie della diplomazia, della preghiera, della reazione popolare alla guerra, agli affari sporchi che la guerra favorisce. Non possiamo rinunciare alla ragionevolezza che convince dell’assurdità della guerra e scuote dall’assuefazione. Non possiamo rinunciare al desiderio dell’incontro, della conoscenza, dell’amicizia tra i popoli, consapevoli che gli altri ci sono necessari».
Solidarietà, principio rivoluzionario
Le terre ambrosiane sono storicamente ricche di solidarietà. Eppure anche su questo punto l’Arcivescovo mette in guardia. «Voglio fare l’elogio del realismo della speranza per incoraggiare il pensiero e l’azione a interpretare la vocazione della nostra terra alla solidarietà. In molti modi le risorse sono state condivise: il tempo è diventato dono per il volontariato, le risorse economiche sono diventate supporto per opere di carità, gli spazi sono diventati luoghi per accogliere. È necessario però riconoscere ed evitare di praticare la “generosità del superfluo” o “degli avanzi”. Soprattutto in un settore che vede tutti impegnati in modo diretto e prioritario: l’assistenza ai fragili e la cura dei sofferenti. La gran parte delle risorse delle nostre istituzioni è investita in questo settore».
L’Arcivescovo è sempre più esplicito anche nella critica verso un sistema economico che punta sul profitto e considera la solidarietà un orpello marginale: «Forme diffuse di neoliberismo nelle trame di potentati imprenditoriali e dei poteri finanziari si ammantano di paternalismo generoso e di ostentata filantropia e perpetuano un regime di iniquità, la subordinazione umiliante di tanti, una cronica dipendenza dai privilegiati, dai forti, dai potenti». È necessario invece un cambio di passo radicale, addirittura rivoluzionario: «Il realismo della speranza incoraggia a sentirsi più profondamente un “popolo in cammino”, che pratica la solidarietà non come un’appendice lodevole dell’economia, ma come un principio rivoluzionario del sistema economico. Di fronte alla crescente divaricazione tra ricchi e poveri non può bastare qualche volonterosa protesta: è necessario sperare insieme con realismo un mondo giusto e mettere mano all’impresa di costruirlo».
L’elogio della politica
L’Arcivescovo ci tiene a ringraziare chi è impegnato nelle istituzioni e nei ruoli di maggiore responsabilità, a «esprimere la gratitudine per il servizio reso alla città e a tutti i Comuni della Diocesi dai sindaci e da tutti coloro che collaborano per l’Amministrazione comunale, dagli operatori della sanità e dell’educazione, dalle Forze dell’ordine, dai magistrati, dalle autorità provinciali e regionali. Mi sembra che coloro che hanno responsabilità per il bene comune coltivino quel realismo della speranza che incoraggia ogni giorno a fare il proprio dovere, a pensare, a dialogare, a decidere, a interrogarsi sulle vie da percorrere. Chi ha responsabilità, infatti, deve guardare lontano. La popolarità o l’interesse, il prestigio o il vantaggio personale sono guadagni troppo meschini e troppo improbabili per motivare un impegno quotidiano spesso logorante e poco confortato da risultati».
In controtendenza rispetto a un’immagine non sempre entusiasmante, l’Arcivescovo fa «l’elogio della politica, di questa politica: si deve affermare che la cura per il bene comune, oltre il proprio interesse o l’interesse del proprio partito, l’impegno che trova motivazione nell’inquietudine e nel realismo della speranza si chiamano “politica”».
Delpini mette in guardia da una visione populista della politica: «È più facile e consueto deprecare i comportamenti dei politici, irridere all’impotenza dei politici e all’inefficacia delle leggi, denunciare fallimenti, errori. Una sorta di scetticismo pervade l’animo lombardo nei confronti delle intenzioni e dei risultati dell’azione legislativa e dell’applicazione delle leggi».
La democrazia rappresentativa
L’Arcivescovo tesse invece le lodi del sistema democratico fondamentale per la convivenza civile, ricordando le radici della Costituzione nata dalla Resistenza: «Voglio fare l’elogio della politica che si esprime nella democrazia rappresentativa, il sistema costituzionale in cui viviamo, esito di un doloroso travaglio, della tragedia della guerra, dell’oppressione della dittatura, della sapienza dei legislatori».
Va colmata la distanza tra chi è impegnato in politica e il cittadino: «L’elogio della democrazia rappresentativa chiede che ci sia un impegno condiviso per contestare e correggere la sfiducia che è presente in chi non vuole essere coinvolto, si chiude nel proprio punto di vista e non si interessa degli altri, pretende che siano soddisfatti i propri bisogni ma non si cura del bene dell’insieme. Voglio fare l’elogio della democrazia rappresentativa che convoca tutte le componenti della società a costituire un “noi” radunato da un senso di appartenenza e di legittima pluralità per praticare il realismo della speranza, per costruire la giustizia e la pace».
Rilanciare la partecipazione
Per questo è fondamentale che tutti si sentano protagonisti e responsabili rilanciando un termine forse antico, ma ancora così carico di prospettiva: la partecipazione: «Voglio fare l’elogio della partecipazione che non si accontenta di esprimere il voto per il proprio partito e il proprio candidato, ma che discute, ascolta, offre le proprie idee, pretende supporto per le forme di aggregazione e di presenza costruttiva nel sociale per prendersi cura degli altri, soprattutto di quelli che non contano, non parlano, non votano».
Prendersi cura del bene comune
Società civile ed eletti nelle istituzioni che dialogano e costruiscono ponti: «Voglio fare l’elogio di un sistema che dà agli eletti il mandato di prendersi cura del bene comune chiedendo loro di rendere conto, di promuovere la sussidiarietà – evitando l’anacronistico schema pubblico-privato – e di svolgere un’opera di mediazione tra i diversi interessi. Voglio fare l’elogio della politica che, volendo rappresentare tutti, si prende cura di chi è più fragile e bisognoso e – disponendo di risorse limitate – considera in primo luogo i servizi più necessari e coloro che non hanno risorse: i disabili gravi, gli anziani soli, le famiglie in povertà».
In conclusione l’elogio di chi è impegnato per il bene comune: «Voglio fare l’elogio di voi, uomini delle istituzioni, onesti, dedicati, responsabili, espressione di una democrazia seria, faticosa e promettente, decisi a far funzionare il servizio che i cittadini vi hanno affidato. Voglio fare l’elogio di voi, che sapete che cos’è il bene comune e lo servite. Faccio il vostro elogio, perché io vi stimo».