Coronavirus, Silvia Avallone: cari ragazzi, ora disubbidite a voi stessi

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Coronavirus, Silvia Avallone: cari ragazzi, ora disubbidite a voi stessi

È l’occasione perfetta per disubbidire. Non alle regole: uscire di casa è da vigliacchi, metterebbe in pericolo i più fragili. Parlo di disubbidire alla vita di prima

Coronavirus, Silvia Avallone: cari ragazzi, ora disubbidite a voi stessi
Sono stata adolescente anch’io, e tutta quell’energia irrefrenabile e strafottente

che pulsa dall’interno per andare, sfidare, me la ricordo, a volte persino mi manca.
Però ricordo benissimo anche l’estate in cui è morta mia nonna. Avevo 13 anni e la mia vita era un verbo: uscire. Dalla mattina alla sera, rientrando giusto il tempo dei pasti, salutando i miei genitori per modo di dire, tutto il giorno al mare, il più lontano possibile dagli adulti. Se qualcuno mi avesse obbligata a rimanere in casa, sarei scoppiata a ridere: cosa ci faccio in casa, io? Posso mica perdermi il mondo proprio adesso? Ho appena iniziato, scoppio di forza!
L’amore e l’amicizia non erano concetti, ma corpi. Camminare mano nella mano un manifesto. Il bacio l’evento. La fuga in due sul mo-torino il massimo. Quel giorno di agosto mi trovavo ai giardinetti con gli altri perché era nuvoloso. Quando ho visto papà comparire all’improvviso, ho alzato gli occhi al cielo: adesso che vuole? Arrabbiata: lo sa che ci sono i miei amici. Lui si è fermato a una decina di metri, mi ha chiamata in disparte. «La nonna è morta», mi ha detto. Ero truccata, indossavo una salopette di jeans, mi ero quasi fidanzata con il ragazzo che mi piaceva. Cosa voleva dire che mia nonna era morta? Com’era possibile una cosa del genere se io ero così felice?

Ho interrotto le vacanze, sono entrata in camera sua e ho visto nonna Bice, con cui avevo trascorso innumerevoli pomeriggi dopo la scuola, stesa sul letto, rigida e fredda. Le ho fatto una carezza. Poi sono andata di là, ho ascoltato i trapani chiudere la cassa. L’ho seguita al cimitero, l’ho guardata mentre la sistemavano in un loculo e a quel punto sono rimasta lì, in piedi a piangere, perché non c’era più niente da fare. Ai giardinetti per anni non ci sono più andata. La morte, anche se non la vedi e non la capisci, cambia tutto per sempre.

Cacciare fuori il coraggio

C’è un altro evento della mia adolescenza che ho voglia di raccontarvi perché potrebbe tornarvi utile adesso: la mia scoperta della Storia. Era di nuovo estate, verso la fine: l’11 settembre 2001. Di anni ne avevo 17 e, naturalmente, ero sempre in giro. Cosa contava in quel periodo per me? Il fidanzato, le amiche, i voti scolastici: insomma, i fatti rigorosamente miei. Solo che quel pomeriggio ero entrata in un bar e mi ero imbattuta in una televisione accesa. Trasmetteva immagini che sembravano l’ultimo colossal hollywoodiano e invece erano la realtà. Stavano morendo delle persone, in diretta, cadendo nel vuoto di fronte a me. Ho visto le Torri Gemelle crollarmi davanti e sento ancora sulla pelle il terrore, l’impotenza, lo sconvolgimento. È quello che Kant chiama il sublime: quando ti accorgi che sei solo un puntino e la tua storia ha una s infinitamente minuscola al cospetto della Storia, gigantesca. Eppure, tu ne fai parte.

Mi è tornato in mente spesso l’11 settembre, in questi giorni. Come allora, non riesco a staccarmi dalle notizie, leggo i giornali di continuo, quando è l’ora di un notiziario scatto a prendere il telecomando. La diciassettenne rimasta dentro di me, pigiata in fondo alla donna preoccupata per gli anziani conosciuti e sconosciuti, per tutti coloro che hanno un sistema immunitario depresso, per chi sta lottando per respirare, per chi lavora in ospedale e si ammazza di turni, per l’intera nostra esistenza a soqquadro, avverte la portata epica di questo virus e prova meraviglia. Anche chiusa in casa, sono testimone di qualcosa che finirà nei libri, che non dimenticheremo mai. Non userò con voi nessuna delle parole fondamentali per gli adulti in questo momento, e che però vi farebbero sbuffare come sbuffavo io a 17 anni: maturità, responsabilità. Userò un’altra parola: ambizione. Quando la Storia arriva, bisogna cacciare fuori il coraggio ed esserne all’altezza.

Lo so che questa volta, a differenza dell’11 settembre, la Storia non si vede. Se mi affaccio dalla finestra, c’è il deserto. Ogni mattina mi alzo e ascolto allibita il silenzio del mio quartiere: vi sentivo sempre parlare a voce esageratamente alta, quando andavate a scuola. Mi di-sturbavate mentre scrivevo, e ora cosa darei per sentire le vostre voci. Mi mancano tutti: non solo i familiari e gli amici, ma chi vedevo di sfuggita fuori dall’asilo di mia figlia, i passanti. Mi mancano gli altri. Volevano convincerci che solo quello che si possiede, quello che balza agli occhi, che solo l’io conta. E il coronavirus ha smentito tutto.

Per certi versi è davvero uno scacco sorprendente per la nostra epoca, e per voi in particolare. Siete nati e cresciuti nel mito della visibilità a tutti i costi, nel culto delle immagini, dei video, e la prima volta che la Storia vi si presenta lo fa sotto sembianze invisibili. Pure, proprio per questo, mi viene da dirvi che è l’occasione perfetta per disubbidire. Non alle regole del decreto: uscire di casa non solo non sarebbe trasgressivo, ma da vigliacchi, perché metterebbe in pericolo gli altri che ci mancano, noi stessi, coloro che la società dell’immagine costringeva nell’ombra, cioè i più fragili. Parlo di alzare il tiro al massimo livello: disubbidire alla nostra vita di prima.

La nostra vita di prima

Quella in cui era obbligatorio sembrare felici e farlo vedere, in cui vigeva lo strapotere del visibile, l’assoluto della competizione. In cui dovevamo fare sempre meglio e ottenere sempre di più. Cosa ce ne facciamo adesso di tutta quella montagna di apparenza, a cosa ci è servito quell’egocentrismo esagerato? Prendiamone atto: l’invisibile è molto più potente. Ciò che proviamo non si vede. Ciò che siamo non si vede. I desideri, i segreti, i pensieri, l’anima, non si vedono. Un consiglio spassionato? Non disertate la Rete, anzi, ma accanto al diario pubblico, scrivetene uno privato. Strappate una pagina bianca da un quaderno e buttateci sopra quel che avete dentro. Non per piacere agli altri o per utilità. Solo per voi stessi, senza altro fine se non quello di conoscervi. Avete tempo, no? Potete perdere settimane annegandole nei videogiochi oppure tentare l’impresa: capire chi siete e chi desiderate diventare.

E riprendiamoci gli altri, non come spettatori delle nostre foto, ma come interlocutori veri. Scrivete ai vostri amici, al vostro fidanzato: non messaggini brevi, frammentati, troppo facile comunicare così. Anch’io ho le chat zeppe di messaggi vocali che non riascolterò mai, o che sento caricando la lavastoviglie. No, sto parlando di dire qualcosa a chi vi sta a cuore, di vero, duraturo, che vi costa fatica tirare fuori, ma che potranno rileggere tra vent’anni. La vita va fermata, non lasciata passare come acqua. Lo so, per riuscirci vi servono le parole, quelle giuste. E per disporne tocca leggere. Non storcete il naso: sul fronte dei libri vi hanno sempre mentito. I romanzi sono luoghi poco racco-mandabili dove succedono cose pericolose o scandalose. E, siccome adesso nessuno può uscire, non avete niente da perdere: la condizione ideale per osare.

Avete un corpo che esplode, lo so, e desiderio di altri corpi vicino. Avete voglia di emozioni forti, di trasgredire, lo esige la vostra età. Non so voi, ma io dopo ore su internet a scorrere pagine senza vederle, mi sento più vuota. Se invece mi tuffo tra le pagine di un romanzo che mi piace e mi trascina, il mio corpo vibra. E poi, certo, potete dedicarvi a molte altre attività che richiedono picchi di immaginazione: musica, pittura, cinema, scultura. Se non avete fame, se non vi manca niente, non avete motivo per esercitare la creatività e il talento. Anche l’amore si nutre di assenza. Adesso che non ce lo avete più in mano, il mondo, sentite quanto bisogno ha di voi? E voi di lui?

Non dimostrare più niente

Il coronavirus è arrivato e ha tirato giù tutto: gli ospedali, l’economia, la quotidianità, le abitudini, gli abbracci, il lavoro, la nostra spavalderia. Pare che aggredisca con più ferocia gli anziani e gli adulti, come nel romanzo Anna di Niccolò Ammaniti (sì, è un invito a leggerlo), ma non per questo i ragazzi e i bambini possono dirsi in salvo. Fragili lo siamo diventati tutti: disorientati, spaventati, in ansia. Ma la verità è che lo siamo sempre stati. Il virus ci ha smascherato e sarebbe bello se riuscissimo a trarne una liberazione: non dimostrare più niente a nessuno, ma aiutare. È ignoto, questo virus, non sappiamo ancora quanto durerà, come ci cambierà, ma possiamo scegliere di sperimentare tra quattro mura quello che prima non ci saremmo sognati.

Ultimo consiglio: telefonate ai vostri nonni. Io lo farei, se potessi. Specialmente la nonna Bice. Le direi: hai visto cos’è capitato, nonna? L’avresti mai immaginato? Mi tengo fermo nel cuore il vuoto della sua risposta. Ridisegno tutte le priorità intorno a questa mancanza.