La prima, se registrata dai sensi, può essere affrontata, ma se è interiore provoca ribellione e smarrimento. Allora interviene la seconda, nel riconoscerla e nell’assumerla
di don Stefano GUARINELLI
Docente al Seminario arcivescovile
La paura utilizza molti canali. Nasce come reazione a una percezione dei sensi: un rumore inatteso e magari sinistro; un’immagine distorta, mostruosa, perfino violenta; ma pure un ostacolo sul cammino, un odore mortifero, un sapore acre e maligno…
C’è dell’altro. Il nostro sentire, la percezione della realtà nella quale siamo immersi, procede anche al di là di tutto ciò, quando nessuno dei cinque sensi ci porta qualcosa che, in sé, potrebbe scatenare la paura. Eppure, quella c’è. Accade come se il nostro corpo percepisse un pericolo; a quel punto è il nostro stesso corpo «a far spaventare» la nostra mente.
In questi giorni, certo, le immagini inconsuete, con le strade deserte e gli ospedali allo stremo; le notizie che si susseguono, abbondando di dati e previsioni angoscianti; la ricerca perfino compulsiva di considerazioni, commenti, valutazioni, in grado ogni volta di smentirsi reciprocamente, colpiscono i nostri sensi.
Ma non sentiamo solo tutto questo. No. Noi, gli esseri umani, siamo in grado di sentire anche il sentire degli altri. Dunque, noi non abbiamo paura solo per ciò che ascoltiamo, vediamo, tocchiamo, odoriamo, assaggiamo. Noi abbiamo paura quando sentiamo la paura degli altri. E quella paura risuona come «da dentro» di noi. A quel punto, anche noi abbiamo paura e quella stessa paura, a nostra volta, la trasmettiamo.
La paura che viene da dentro, assieme alla paura che nasce come reazione a ciò che i nostri cinque sensi registrano, rende la paura come al crocevia di molte paure diverse. Quella che viene dai sensi forse potrà essere affrontata, cercando di essere obiettivi, realisti; aggirata, distraendosi con lo sport o con i video musicali e umoristici di YouTube; reinterpretata, leggendo o ascoltando opinioni in controtendenza; risignificata, razionalizzando o spiritualizzando per quel tanto che si può, e qualche volta a costo di deformare l’immagine stessa di Dio.
Con la paura che viene da dentro, però, c’è caso che tutte quelle strategie non funzionino. Quella che viene da dentro, se poi ha a che fare con la malattia – dunque, ultimamente, con la morte -, colpisce il corpo perché il corpo non ne vuole sapere di «finire». E si ribella. I discorsi rassicuranti, le riflessioni morali o quelle che paiono spirituali non sempre lo tranquillizzano. Qualche volta lo infastidiscono pure.
La ricerca di senso, anche all’interno di eventi di crisi, quando è in gioco la stessa vita fisica è tutt’altro che priva di senso. Non è detto, però, che il corpo si sottometta a certi ragionamenti. Il corpo semplicemente non vuole smettere di vivere.
Abbiamo paura. Interiormente può succedere che ci sentiamo come sdoppiati: viviamo, guardiamo avanti, consoliamo, preghiamo, reagiamo, osiamo sorridere. Ma il corpo trema, lo stomaco pare annodarsi, sentiamo nausea, rifiuto, vertigini, finanche panico. Il dolore diventa reale e la paura si trasforma poi in terrore quando il contagio colpisce una persona che conosciamo, con un volto e un nome precisi.
La paura che scaturisce dal rischio di un contagio, inoltre, è più simile all’angoscia, cioè a una «paura senza oggetto». Perché la minaccia di un virus non si vede. Il che significa che potrebbe essere ovunque. Da qui, non è raro che noi, esseri umani, facciamo di tutto per trasformare l’angoscia in paura, appunto, individuando di volta in volta «oggetti», che sono persone, situazioni, comportamenti, «cose», controllando le quali noi, illusoriamente, crediamo di dare un volto all’angoscia, tenendo così a bada la minaccia. E questo, pur se parzialmente, pare procurarci un po’ di sollievo. I rischi per noi stessi e per le nostre relazioni, tuttavia, non sono pochi: ci si può illudere di controllare la paura continuando a rimuginare, oppure a parlare, parlare, parlare, del virus, delle statistiche, della inadeguatezza dei provvedimenti, qui o altrove, fino a scivolare nelle tesi complottiste, negli esperimenti di laboratorio, da cui il virus altro non sarebbe se non il prodotto deliberato di un progetto perverso, ecc. E ancora: ci si può arrabbiare in modo spropositato perché una persona si è avvicinata non rispettando la distanza adeguata, o perché ha starnutito senza voltare il viso da un’altra parte, o perché ci ha parlato di lavoro o di vacanze, quando il primo è in bilico e le seconde forse non ci saranno nemmeno.
La speranza può rischiare di diventare complice di quello sdoppiamento. E ciò può accadere laddove quella speranza, pur qualificandosi come cristiana, finisca per trascurare la legittima pretesa del corpo: quella di non voler morire.
La speranza cristiana non è alternativa alla paura. Al contrario: la riconosce e la assume. È l’esperienza di Gesù nell’orto degli ulivi: non solo Egli non si sottrae alla propria passione, ma parte di quella passione è nella paura sperimentata dal Figlio di Dio. Nemmeno a quella Egli si sottrae. Pur nella paura, Egli si affida. E così facendo divinizza anche la nostra paura.
Anche avere paura, accogliendola per quella che è e senza travestirla di recriminazioni, congetture, arrabbiature, ci rende simili a Lui. A quel punto possiamo affidarci e affidare al Padre la nostra vita e quella di coloro che amiamo. E la speranza ci viene donata.
Lo Spirito di Cristo ci dia il coraggio di avere paura.