SPES NON CONFUNDIT Bolla di indizione del Giubileo Ordinario dell’Anno 2025
La Santa Sede
SPES NON CONFUNDIT
Bolla di indizione
del Giubileo Ordinario
dell’Anno 2025
FRANCESCO
VESCOVO DI ROMA
SERVO DEI SERVI DI DIO
A QUANTI LEGGERANNO QUESTA LETTERA
LA SPERANZA RICOLMI IL CUORE
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1. «Spes non confundit», «la speranza non delude» (Rm 5,5). Nel segno della speranza l’apostolo
Paolo infonde coraggio alla comunità cristiana di Roma. La speranza è anche il messaggio
centrale del prossimo Giubileo, che secondo antica tradizione il Papa indice ogni venticinque anni.
Penso a tutti i pellegrini di speranza che giungeranno a Roma per vivere l’Anno Santo e a quanti,
non potendo raggiungere la città degli apostoli Pietro e Paolo, lo celebreranno nelle Chiese
particolari. Per tutti, possa essere un momento di incontro vivo e personale con il Signore Gesù,
«porta» di salvezza (cfr. Gv 10,7.9); con Lui, che la Chiesa ha la missione di annunciare sempre,
ovunque e a tutti quale «nostra speranza» (1Tm 1,1).
Tutti sperano. Nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del
bene, pur non sapendo che cosa il domani porterà con sé. L’imprevedibilità del futuro, tuttavia, fa
sorgere sentimenti a volte contrapposti: dalla fiducia al timore, dalla serenità allo sconforto, dalla
certezza al dubbio. Incontriamo spesso persone sfiduciate, che guardano all’avvenire con
scetticismo e pessimismo, come se nulla potesse offrire loro felicità. Possa il Giubileo essere per
tutti occasione di rianimare la speranza. La Parola di Dio ci aiuta a trovarne le ragioni. Lasciamoci
condurre da quanto l’apostolo Paolo scrive proprio ai cristiani di Roma.
Una Parola di speranza
2. «Giustificati dunque per fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù
Cristo. Per mezzo di lui abbiamo anche, mediante la fede, l’accesso a questa grazia nella quale ci
troviamo e ci vantiamo, saldi nella speranza della gloria di Dio. […] La speranza poi non delude,
perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato
dato» (Rm 5,1-2.5). Sono molteplici gli spunti di riflessione che qui San Paolo propone. Sappiamo
che la Lettera ai Romani segna un passaggio decisivo nella sua attività di evangelizzazione. Fino
a quel momento l’ha svolta nell’area orientale dell’Impero e ora lo aspetta Roma, con quanto essa
rappresenta agli occhi del mondo: una sfida grande, da affrontare in nome dell’annuncio del
Vangelo, che non può conoscere barriere né confini. La Chiesa di Roma non è stata fondata da
Paolo, e lui sente vivo il desiderio di raggiungerla presto, per portare a tutti il Vangelo di Gesù
Cristo, morto e risorto, come annuncio della speranza che compie le promesse, introduce alla
gloria e, fondata sull’amore, non delude.
3. La speranza, infatti, nasce dall’amore e si fonda sull’amore che scaturisce dal Cuore di Gesù
trafitto sulla croce: «Se infatti, quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo
della morte del Figlio suo, molto più ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua
vita» (Rm 5,10). E la sua vita si manifesta nella nostra vita di fede, che inizia con il Battesimo, si
sviluppa nella docilità alla grazia di Dio ed è perciò animata dalla speranza, sempre rinnovata e
resa incrollabile dall’azione dello Spirito Santo.
Èinfatti lo Spirito Santo, con la sua perenne presenza nel cammino della Chiesa, a irradiare nei
credenti la luce della speranza: Egli la tiene accesa come una fiaccola che mai si spegne, per
dare sostegno e vigore alla nostra vita. La speranza cristiana, in effetti, non illude e non delude,
perché è fondata sulla certezza che niente e nessuno potrà mai separarci dall’amore divino: «Chi
ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la
nudità, il pericolo, la spada? […] Ma in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui
che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente
né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci
dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» ( Rm 8,35.37-39). Ecco perché questa
speranza non cede nelle difficoltà: essa si fonda sulla fede ed è nutrita dalla carità, e così
permette di andare avanti nella vita. Sant’Agostino scrive in proposito: «In qualunque genere di
vita, non si vive senza queste tre propensioni dell’anima: credere, sperare, amare». [1]
4. San Paolo è molto realista. Sa che la vita è fatta di gioie e di dolori, che l’amore viene messo
alla prova quando aumentano le difficoltà e la speranza sembra crollare davanti alla sofferenza.
Eppure scrive: «Ci vantiamo anche nelle tribolazioni, sapendo che la tribolazione produce
pazienza, la pazienza una virtù provata e la virtù provata la speranza» (Rm 5,3-4). Per l’Apostolo,
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la tribolazione e la sofferenza sono le condizioni tipiche di quanti annunciano il Vangelo in contesti
di incomprensione e di persecuzione (cfr. 2Cor 6,3-10). Ma in tali situazioni, attraverso il buio si
scorge una luce: si scopre come a sorreggere l’evangelizzazione sia la forza che scaturisce dalla
croce e dalla risurrezione di Cristo. E ciò porta a sviluppare una virtù strettamente imparentata con
la speranza: la pazienza. Siamo ormai abituati a volere tutto e subito, in un mondo dove la fretta è
diventata una costante. Non si ha più il tempo per incontrarsi e spesso anche nelle famiglie
diventa difficile trovarsi insieme e parlare con calma. La pazienza è stata messa in fuga dalla
fretta, recando un grave danno alle persone. Subentrano infatti l’insofferenza, il nervosismo, a
volte la violenza gratuita, che generano insoddisfazione e chiusura.
Nell’epoca di internet, inoltre, dove lo spazio e il tempo sono soppiantati dal “qui ed ora”, la
pazienza non è di casa. Se fossimo ancora capaci di guardare con stupore al creato, potremmo
comprendere quanto decisiva sia la pazienza. Attendere l’alternarsi delle stagioni con i loro frutti;
osservare la vita degli animali e i cicli del loro sviluppo; avere gli occhi semplici di San Francesco
che nel suo Cantico delle creature, scritto proprio 800 anni fa, percepiva il creato come una
grande famiglia e chiamava il sole “fratello” e la luna “sorella”. [2] Riscoprire la pazienza fa tanto
bene a sé e agli altri. San Paolo fa spesso ricorso alla pazienza per sottolineare l’importanza della
perseveranza e della fiducia in ciò che ci è stato promesso da Dio, ma anzitutto testimonia che Dio
è paziente con noi, Lui che è «il Dio della perseveranza e della consolazione» ( Rm 15,5). La
pazienza, frutto anch’essa dello Spirito Santo, tiene viva la speranza e la consolida come virtù e
stile di vita. Pertanto, impariamo a chiedere spesso la grazia della pazienza, che è figlia della
speranza e nello stesso tempo la sostiene.
Un cammino di speranza
5. Da questo intreccio di speranza e pazienza appare chiaro come la vita cristiana sia un
cammino, che ha bisogno anche di momenti forti per nutrire e irrobustire la speranza, insostituibile
compagna che fa intravedere la meta: l’incontro con il Signore Gesù. Mi piace pensare che un
percorso di grazia, animato dalla spiritualità popolare, abbia preceduto l’indizione, nel 1300, del
primo Giubileo. Non possiamo infatti dimenticare le varie forme attraverso cui la grazia del
perdono si è riversata con abbondanza sul santo Popolo fedele di Dio. Ricordiamo, ad esempio, la
grande “perdonanza” che San Celestino V volle concedere a quanti si recavano nella Basilica di
Santa Maria di Collemaggio, a L’Aquila, nei giorni 28 e 29 agosto 1294, sei anni prima che Papa
Bonifacio VIII istituisse l’Anno Santo. La Chiesa già sperimentava, dunque, la grazia giubilare della
misericordia. E ancora prima, nel 1216, Papa Onorio III aveva accolto la supplica di San
Francesco che chiedeva l’indulgenza per quanti avrebbero visitato la Porziuncola nei primi due
giorni di agosto. Lo stesso si può affermare per il pellegrinaggio a Santiago di Compostela: infatti
Papa Callisto II, nel 1122, concesse di celebrare il Giubileo in quel Santuario ogni volta che la
festa dell’apostolo Giacomo cadeva di domenica. È bene che tale modalità “diffusa” di celebrazioni
giubilari continui, così che la forza del perdono di Dio sostenga e accompagni il cammino delle
comunità e delle persone.
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Non a caso il pellegrinaggio esprime un elemento fondamentale di ogni evento giubilare. Mettersi
in cammino è tipico di chi va alla ricerca del senso della vita. Il pellegrinaggio a piedi favorisce
molto la riscoperta del valore del silenzio, della fatica, dell’essenzialità. Anche nel prossimo anno i
pellegrini di speranza non mancheranno di percorrere vie antiche e moderne per vivere
intensamente l’esperienza giubilare. Nella stessa città di Roma, inoltre, saranno presenti itinerari
di fede, in aggiunta a quelli tradizionali delle catacombe e delle Sette Chiese. Transitare da un
Paese all’altro, come se i confini fossero superati, passare da una città all’altra nella
contemplazione del creato e delle opere d’arte permetterà di fare tesoro di esperienze e culture
differenti, per portare dentro di sé la bellezza che, armonizzata dalla preghiera, conduce a
ringraziare Dio per le meraviglie da Lui compiute. Le chiese giubilari, lungo i percorsi e nell’Urbe,
potranno essere oasi di spiritualità dove ristorare il cammino della fede e abbeverarsi alle sorgenti
della speranza, anzitutto accostandosi al Sacramento della Riconciliazione, insostituibile punto di
partenza di un reale cammino di conversione. Nelle Chiese particolari si curi in modo speciale la
preparazione dei sacerdoti e dei fedeli alle Confessioni e l’accessibilità al sacramento nella forma
individuale.
A questo pellegrinaggio un invito particolare voglio rivolgere ai fedeli delle Chiese Orientali, in
particolare a coloro che sono già in piena comunione con il Successore di Pietro. Essi, che hanno
tanto sofferto, spesso fino alla morte, per la loro fedeltà a Cristo e alla Chiesa, si devono sentire
particolarmente benvenuti in questa Roma che è Madre anche per loro e che custodisce tante
memorie della loro presenza. La Chiesa Cattolica, che è arricchita dalle loro antichissime liturgie,
dalla teologia e dalla spiritualità dei Padri, monaci e teologi, vuole esprimere simbolicamente
l’accoglienza loro e dei loro fratelli e sorelle ortodossi, in un’epoca in cui già vivono il
pellegrinaggio della Via Crucis, con cui sono spesso costretti a lasciare le loro terre d’origine, le
loro terre sante, da cui li scacciano verso Paesi più sicuri la violenza e l’instabilità. Per loro la
speranza di essere amati dalla Chiesa, che non li abbandonerà, ma li seguirà dovunque
andranno, rende ancora più forte il segno del Giubileo.
6. L’Anno Santo 2025 si pone in continuità con i precedenti eventi di grazia. Nell’ultimo Giubileo
Ordinario si è varcata la soglia dei duemila anni della nascita di Gesù Cristo. In seguito, il 13
marzo 2015, ho indetto un Giubileo Straordinario con lo scopo di manifestare e permettere di
incontrare il “Volto della misericordia” di Dio, [3] annuncio centrale del Vangelo per ogni persona in
ogni epoca. Ora è giunto il tempo di un nuovo Giubileo, nel quale spalancare ancora la Porta
Santa per offrire l’esperienza viva dell’amore di Dio, che suscita nel cuore la speranza certa della
salvezza in Cristo. Nello stesso tempo, questo Anno Santo orienterà il cammino verso un’altra
ricorrenza fondamentale per tutti i cristiani: nel 2033, infatti, si celebreranno i duemila anni della
Redenzione compiuta attraverso la passione, morte e risurrezione del Signore Gesù. Siamo così
dinanzi a un percorso segnato da grandi tappe, nelle quali la grazia di Dio precede e accompagna
il popolo che cammina zelante nella fede, operoso nella carità e perseverante nella speranza (cfr.
1Ts 1,3).
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Sostenuto da una così lunga tradizione e nella certezza che questo Anno giubilare potrà essere
per tutta la Chiesa un’intensa esperienza di grazia e di speranza, stabilisco che la Porta Santa
della Basilica di San Pietro in Vaticano sia aperta il 24 dicembre del presente anno 2024, dando
così inizio al Giubileo Ordinario. La domenica successiva, 29 dicembre 2024, aprirò la Porta Santa
della mia cattedrale di San Giovanni in Laterano, che il 9 novembre di quest’anno celebrerà i 1700
anni della dedicazione. A seguire, il 1° gennaio 2025, Solennità di Maria Santissima Madre di Dio,
verrà aperta la Porta Santa della Basilica papale di Santa Maria Maggiore. Infine, domenica 5
gennaio sarà aperta la Porta Santa della Basilica papale di San Paolo fuori le Mura. Queste ultime
tre Porte Sante saranno chiuse entro domenica 28 dicembre dello stesso anno.
Stabilisco inoltre che domenica 29 dicembre 2024, in tutte le cattedrali e concattedrali, i Vescovi
diocesani celebrino la santa Eucaristia come solenne apertura dell’Anno giubilare, secondo il
Rituale che verrà predisposto per l’occasione. Per la celebrazione nella chiesa concattedrale, il
Vescovo potrà essere sostituito da un suo Delegato appositamente designato. Il pellegrinaggio da
una chiesa, scelta per la collectio, verso la cattedrale sia il segno del cammino di speranza che,
illuminato dalla Parola di Dio, accomuna i credenti. In esso si dia lettura di alcuni brani del
presente Documento e si annunci al popolo l’Indulgenza Giubilare, che potrà essere ottenuta
secondo le prescrizioni contenute nel medesimo Rituale per la celebrazione del Giubileo nelle
Chiese particolari. Durante l’Anno Santo, che nelle Chiese particolari terminerà domenica 28
dicembre 2025, si abbia cura che il Popolo di Dio possa accogliere con piena partecipazione sia
l’annuncio di speranza della grazia di Dio sia i segni che ne attestano l’efficacia.
Il Giubileo Ordinario terminerà con la chiusura della Porta Santa della Basilica papale di San
Pietro in Vaticano il 6 gennaio 2026, Epifania del Signore. Possa la luce della speranza cristiana
raggiungere ogni persona, come messaggio dell’amore di Dio rivolto a tutti! E possa la Chiesa
essere testimone fedele di questo annuncio in ogni parte del mondo!
Segni di speranza
7. Oltre ad attingere la speranza nella grazia di Dio, siamo chiamati a riscoprirla anche nei segni
dei tempi che il Signore ci offre. Come afferma il Concilio Vaticano II, «è dovere permanente della
Chiesa di scrutare i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo, così che, in modo
adatto a ciascuna generazione, possa rispondere ai perenni interrogativi degli uomini sul senso
della vita presente e futura e sulle loro relazioni reciproche». [4] È necessario, quindi, porre
attenzione al tanto bene che è presente nel mondo per non cadere nella tentazione di ritenerci
sopraffatti dal male e dalla violenza. Ma i segni dei tempi, che racchiudono l’anelito del cuore
umano, bisognoso della presenza salvifica di Dio, chiedono di essere trasformati in segni di
speranza.
8. Il primo segno di speranza si traduca in pace per il mondo, che ancora una volta si trova
immerso nella tragedia della guerra. Immemore dei drammi del passato, l’umanità è sottoposta a
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una nuova e difficile prova che vede tante popolazioni oppresse dalla brutalità della violenza.
Cosa manca ancora a questi popoli che già non abbiano subito? Com’è possibile che il loro grido
disperato di aiuto non spinga i responsabili delle Nazioni a voler porre fine ai troppi conflitti
regionali, consapevoli delle conseguenze che ne possono derivare a livello mondiale? È troppo
sognare che le armi tacciano e smettano di portare distruzione e morte? Il Giubileo ricordi che
quanti si fanno «operatori di pace saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9). L’esigenza della pace
interpella tutti e impone di perseguire progetti concreti. Non venga a mancare l’impegno della
diplomazia per costruire con coraggio e creatività spazi di trattativa finalizzati a una pace duratura.
9. Guardare al futuro con speranza equivale anche ad avere una visione della vita carica di
entusiasmo da trasmettere. Purtroppo, dobbiamo constatare con tristezza che in tante situazioni
tale prospettiva viene a mancare. La prima conseguenza è la perdita del desiderio di trasmettere
la vita. A causa dei ritmi di vita frenetici, dei timori riguardo al futuro, della mancanza di garanzie
lavorative e tutele sociali adeguate, di modelli sociali in cui a dettare l’agenda è la ricerca del
profitto anziché la cura delle relazioni, si assiste in vari Paesi a un preoccupante calo della
natalità. Al contrario, in altri contesti, «incolpare l’incremento demografico e non il consumismo
estremo e selettivo di alcuni, è un modo per non affrontare i problemi». [5]
L’apertura alla vita con una maternità e paternità responsabile è il progetto che il Creatore ha
inscritto nel cuore e nel corpo degli uomini e delle donne, una missione che il Signore affida agli
sposi e al loro amore. È urgente che, oltre all’impegno legislativo degli Stati, non venga a mancare
il sostegno convinto delle comunità credenti e dell’intera comunità civile in tutte le sue componenti,
perché il desiderio dei giovani di generare nuovi figli e figlie, come frutto della fecondità del loro
amore, dà futuro ad ogni società ed è questione di speranza: dipende dalla speranza e genera
speranza.
La comunità cristiana perciò non può essere seconda a nessuno nel sostenere la necessità di
un’alleanza sociale per la speranza, che sia inclusiva e non ideologica, e lavori per un avvenire
segnato dal sorriso di tanti bambini e bambine che vengano a riempire le ormai troppe culle vuote
in molte parti del mondo. Ma tutti, in realtà, hanno bisogno di recuperare la gioia di vivere, perché
l’essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio (cfr. Gen 1,26), non può accontentarsi di
sopravvivere o vivacchiare, di adeguarsi al presente lasciandosi soddisfare da realtà soltanto
materiali. Ciò rinchiude nell’individualismo e corrode la speranza, generando una tristezza che si
annida nel cuore, rendendo acidi e insofferenti.
10. Nell’Anno giubilare saremo chiamati ad essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e
sorelle che vivono in condizioni di disagio. Penso ai detenuti che, privi della libertà, sperimentano
ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non
pochi casi, la mancanza di rispetto. Propongo ai Governi che nell’Anno del Giubileo si assumano
iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le
persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità
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a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi.
Èun richiamo antico, che proviene dalla Parola di Dio e permane con tutto il suo valore sapienziale
nell’invocare atti di clemenza e di liberazione che permettano di ricominciare: «Dichiarerete santo
il cinquantesimo anno e proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti» ( Lv 25,10).
Quanto stabilito dalla Legge mosaica è ripreso dal profeta Isaia: «Il Signore mi ha mandato a
portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà
degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l’anno di grazia del Signore» ( Is 61,1-
2). Sono le parole che Gesù ha fatto proprie all’inizio del suo ministero, dichiarando in sé stesso il
compimento dell’“anno di grazia del Signore” (cfr. Lc 4,18-19). In ogni angolo della terra, i credenti,
specialmente i Pastori, si facciano interpreti di tali istanze, formando una voce sola che chieda con
coraggio condizioni dignitose per chi è recluso, rispetto dei diritti umani e soprattutto l’abolizione
della pena di morte, provvedimento contrario alla fede cristiana e che annienta ogni speranza di
perdono e di rinnovamento. [6] Per offrire ai detenuti un segno concreto di vicinanza, io stesso
desidero aprire una Porta Santa in un carcere, perché sia per loro un simbolo che invita a
guardare all’avvenire con speranza e con rinnovato impegno di vita.
11. Segni di speranza andranno offerti agli ammalati, che si trovano a casa o in ospedale. Le loro
sofferenze possano trovare sollievo nella vicinanza di persone che li visitano e nell’affetto che
ricevono. Le opere di misericordia sono anche opere di speranza, che risvegliano nei cuori
sentimenti di gratitudine. E la gratitudine raggiunga tutti gli operatori sanitari che, in condizioni non
di rado difficili, esercitano la loro missione con cura premurosa per le persone malate e più fragili.
Non manchi l’attenzione inclusiva verso quanti, trovandosi in condizioni di vita particolarmente
faticose, sperimentano la propria debolezza, specialmente se affetti da patologie o disabilità che
limitano molto l’autonomia personale. La cura per loro è un inno alla dignità umana, un canto di
speranza che richiede la coralità della società intera.
12. Di segni di speranza hanno bisogno anche coloro che in sé stessi la rappresentano: i giovani.
Essi, purtroppo, vedono spesso crollare i loro sogni. Non possiamo deluderli: sul loro entusiasmo
si fonda l’avvenire. È bello vederli sprigionare energie, ad esempio quando si rimboccano le
maniche e si impegnano volontariamente nelle situazioni di calamità e di disagio sociale. Ma è
triste vedere giovani privi di speranza; d’altronde, quando il futuro è incerto e impermeabile ai
sogni, quando lo studio non offre sbocchi e la mancanza di un lavoro o di un’occupazione
sufficientemente stabile rischiano di azzerare i desideri, è inevitabile che il presente sia vissuto
nella malinconia e nella noia. L’illusione delle droghe, il rischio della trasgressione e la ricerca
dell’effimero creano in loro più che in altri confusione e nascondono la bellezza e il senso della
vita, facendoli scivolare in baratri oscuri e spingendoli a compiere gesti autodistruttivi. Per questo il
Giubileo sia nella Chiesa occasione di slancio nei loro confronti: con una rinnovata passione
prendiamoci cura dei ragazzi, degli studenti, dei fidanzati, delle giovani generazioni! Vicinanza ai
giovani, gioia e speranza della Chiesa e del mondo!
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13. Non potranno mancare segni di speranza nei riguardi dei migranti, che abbandonano la loro
terra alla ricerca di una vita migliore per sé stessi e per le loro famiglie. Le loro attese non siano
vanificate da pregiudizi e chiusure; l’accoglienza, che spalanca le braccia ad ognuno secondo la
sua dignità, si accompagni con la responsabilità, affinché a nessuno sia negato il diritto di
costruire un futuro migliore. Ai tanti esuli, profughi e rifugiati, che le controverse vicende
internazionali obbligano a fuggire per evitare guerre, violenze e discriminazioni, siano garantiti la
sicurezza e l’accesso al lavoro e all’istruzione, strumenti necessari per il loro inserimento nel
nuovo contesto sociale.
La comunità cristiana sia sempre pronta a difendere il diritto dei più deboli. Spalanchi con
generosità le porte dell’accoglienza, perché a nessuno venga mai a mancare la speranza di una
vita migliore. Risuoni nei cuori la Parola del Signore che, nella grande parabola del giudizio finale,
ha detto: «Ero straniero e mi avete accolto», perché «tutto quello che avete fatto a uno solo di
questi miei fratelli più piccoli l’avete fatto a me» (Mt 25,35.40).
14. Segni di speranza meritano gli anziani, che spesso sperimentano solitudine e senso di
abbandono. Valorizzare il tesoro che sono, la loro esperienza di vita, la sapienza di cui sono
portatori e il contributo che sono in grado di offrire, è un impegno per la comunità cristiana e per la
società civile, chiamate a lavorare insieme per l’alleanza tra le generazioni.
Un pensiero particolare rivolgo ai nonni e alle nonne, che rappresentano la trasmissione della fede
e della saggezza di vita alle generazioni più giovani. Siano sostenuti dalla gratitudine dei figli e
dall’amore dei nipoti, che trovano in loro radicamento, comprensione e incoraggiamento.
15. Speranza invoco in modo accorato per i miliardi di poveri, che spesso mancano del necessario
per vivere. Di fronte al susseguirsi di sempre nuove ondate di impoverimento, c’è il rischio di
abituarsi e rassegnarsi. Ma non possiamo distogliere lo sguardo da situazioni tanto drammatiche,
che si riscontrano ormai ovunque, non soltanto in determinate aree del mondo. Incontriamo
persone povere o impoverite ogni giorno e a volte possono essere nostre vicine di casa. Spesso
non hanno un’abitazione, né il cibo adeguato per la giornata. Soffrono l’esclusione e l’indifferenza
di tanti. È scandaloso che, in un mondo dotato di enormi risorse, destinate in larga parte agli
armamenti, i poveri siano «la maggior parte […], miliardi di persone. Oggi sono menzionati nei
dibattiti politici ed economici internazionali, ma per lo più sembra che i loro problemi si pongano
come un’appendice, come una questione che si aggiunga quasi per obbligo o in maniera
periferica, se non li si considera un mero danno collaterale. Di fatto, al momento dell’attuazione
concreta, rimangono frequentemente all’ultimo posto». [7] Non dimentichiamo: i poveri, quasi
sempre, sono vittime, non colpevoli.
Appelli per la speranza
16. Facendo eco alla parola antica dei profeti, il Giubileo ricorda che i beni della Terra non sono
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destinati a pochi privilegiati, ma a tutti. È necessario che quanti possiedono ricchezze si facciano
generosi, riconoscendo il volto dei fratelli nel bisogno. Penso in particolare a coloro che mancano
di acqua e di cibo: la fame è una piaga scandalosa nel corpo della nostra umanità e invita tutti a
un sussulto di coscienza. Rinnovo l’appello affinché «con il denaro che si impiega nelle armi e in
altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame e per lo
sviluppo dei Paesi più poveri, così che i loro abitanti non ricorrano a soluzioni violente o
ingannevoli e non siano costretti ad abbandonare i loro Paesi per cercare una vita più dignitosa».
[8]
Un altro invito accorato desidero rivolgere in vista dell’Anno giubilare: è destinato alle Nazioni più
benestanti, perché riconoscano la gravità di tante decisioni prese e stabiliscano di condonare i
debiti di Paesi che mai potrebbero ripagarli. Prima che di magnanimità, è una questione di
giustizia, aggravata oggi da una nuova forma di iniquità di cui ci siamo resi consapevoli: «C’è
infatti un vero “debito ecologico”, soprattutto tra il Nord e il Sud, connesso a squilibri commerciali
con conseguenze in ambito ecologico, come pure all’uso sproporzionato delle risorse naturali
compiuto storicamente da alcuni Paesi». [9] Come insegna la Sacra Scrittura, la terra appartiene a
Dio e noi tutti vi abitiamo come «forestieri e ospiti» ( Lv 25,23). Se veramente vogliamo preparare
nel mondo la via della pace, impegniamoci a rimediare alle cause remote delle ingiustizie,
ripianiamo i debiti iniqui e insolvibili, saziamo gli affamati.
17. Durante il prossimo Giubileo cadrà una ricorrenza molto significativa per tutti i cristiani. Si
compiranno, infatti, 1700 anni dalla celebrazione del primo grande Concilio ecumenico, quello di
Nicea. È bene ricordare che, fin dai tempi apostolici, i Pastori si riunirono in diverse occasioni in
assemblee allo scopo di trattare tematiche dottrinali e questioni disciplinari. Nei primi secoli della
fede i Sinodi si moltiplicarono sia nell’Oriente sia nell’Occidente cristiano, mostrando quanto fosse
importante custodire l’unità del Popolo di Dio e l’annuncio fedele del Vangelo. L’Anno giubilare
potrà essere un’opportunità importante per dare concretezza a questa forma sinodale, che la
comunità cristiana avverte oggi come espressione sempre più necessaria per meglio
corrispondere all’urgenza dell’evangelizzazione: tutti i battezzati, ognuno con il proprio carisma e
ministero, corresponsabili affinché molteplici segni di speranza testimonino la presenza di Dio nel
mondo.
Il Concilio di Nicea ebbe il compito di preservare l’unità, seriamente minacciata dalla negazione
della divinità di Gesù Cristo e della sua uguaglianza con il Padre. Erano presenti circa trecento
Vescovi, che si riunirono nel palazzo imperiale convocati su impulso dell’imperatore Costantino il
20 maggio 325. Dopo vari dibattimenti, tutti, con la grazia dello Spirito, si riconobbero nel Simbolo
di fede che ancora oggi professiamo nella Celebrazione eucaristica domenicale. I Padri conciliari
vollero iniziare quel Simbolo utilizzando per la prima volta l’espressione «Noi crediamo», [10] a
testimonianza che in quel “Noi” tutte le Chiese si ritrovavano in comunione, e tutti i cristiani
professavano la medesima fede.
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Il Concilio di Nicea è una pietra miliare nella storia della Chiesa. L’anniversario della sua
ricorrenza invita i cristiani a unirsi nella lode e nel ringraziamento alla Santissima Trinità e in
particolare a Gesù Cristo, il Figlio di Dio, «della stessa sostanza del Padre», [11] che ci ha rivelato
tale mistero di amore. Ma Nicea rappresenta anche un invito a tutte le Chiese e Comunità
ecclesiali a procedere nel cammino verso l’unità visibile, a non stancarsi di cercare forme
adeguate per corrispondere pienamente alla preghiera di Gesù: «Perché tutti siano una sola cosa;
come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai
mandato» ( Gv 17,21).
Al Concilio di Nicea si trattò anche della datazione della Pasqua. A tale riguardo, vi sono ancora
oggi posizioni differenti, che impediscono di celebrare nello stesso giorno l’evento fondante della
fede. Per una provvidenziale circostanza, ciò avverrà proprio nell’Anno 2025. Possa essere
questo un appello per tutti i cristiani d’Oriente e d’Occidente a compiere un passo deciso verso
l’unità intorno a una data comune per la Pasqua. Molti, è bene ricordarlo, non hanno più
cognizione delle diatribe del passato e non comprendono come possano sussistere divisioni a tale
proposito.
Ancorati alla speranza
18. La speranza, insieme alla fede e alla carità, forma il trittico delle “virtù teologali”, che
esprimono l’essenza della vita cristiana (cfr. 1Cor 13,13; 1Ts 1,3). Nel loro dinamismo inscindibile,
la speranza è quella che, per così dire, imprime l’orientamento, indica la direzione e la finalità
dell’esistenza credente. Perciò l’apostolo Paolo invita ad essere «lieti nella speranza, costanti
nella tribolazione, perseveranti nella preghiera» (Rm 12,12). Sì, abbiamo bisogno di «abbondare
nella speranza» (cfr. Rm 15,13)
per testimoniare in modo credibile e attraente la fede e l’amore che portiamo nel cuore; perché la
fede sia gioiosa, la carità entusiasta; perché ognuno sia in grado di donare anche solo un sorriso,
un gesto di amicizia, uno sguardo fraterno, un ascolto sincero, un servizio gratuito, sapendo che,
nello Spirito di Gesù, ciò può diventare per chi lo riceve un seme fecondo di speranza. Ma qual è il
fondamento del nostro sperare? Per comprenderlo è bene soffermarci sulle ragioni della nostra
speranza (cfr. 1Pt 3,15).
19. «Credo la vita eterna»: [12] così professa la nostra fede e la speranza cristiana trova in queste
parole un cardine fondamentale. Essa, infatti, «è la virtù teologale per la quale desideriamo […] la
vita eterna come nostra felicità». [13] Il Concilio Ecumenico Vaticano II afferma: «Se manca la
base religiosa e la speranza della vita eterna, la dignità umana viene lesa in maniera assai grave,
come si constata spesso al giorno d’oggi, e gli enigmi della vita e della morte, della colpa e del
dolore rimangono senza soluzione, tanto che non di rado gli uomini sprofondano nella
disperazione». [14] Noi, invece, in virtù della speranza nella quale siamo stati salvati, guardando
al tempo che scorre, abbiamo la certezza che la storia dell’umanità e quella di ciascuno di noi non
corrono verso un punto cieco o un baratro oscuro, ma sono orientate all’incontro con il Signore
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della gloria. Viviamo dunque nell’attesa del suo ritorno e nella speranza di vivere per sempre in
Lui: è con questo spirito che facciamo nostra la commossa invocazione dei primi cristiani, con la
quale termina la Sacra Scrittura: «Vieni, Signore Gesù!» ( Ap 22,20).
20. Gesù morto e risorto è il cuore della nostra fede. San Paolo, nell’enunciare in poche parole,
utilizzando solo quattro verbi, tale contenuto, ci trasmette il “nucleo” della nostra speranza: «A voi
[…] ho trasmesso, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto, cioè che Cristo morì per i nostri
peccati secondo le Scritture e che fu sepolto e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture e
che apparve a Cefa e quindi ai Dodici» ( 1Cor 15,3-5). Cristo morì, fu sepolto, è risorto, apparve.
Per noi è passato attraverso il dramma della morte. L’amore del Padre lo ha risuscitato nella forza
dello Spirito, facendo della sua umanità la primizia dell’eternità per la nostra salvezza. La
speranza cristiana consiste proprio in questo: davanti alla morte, dove tutto sembra finire, si riceve
la certezza che, grazie a Cristo, alla sua grazia che ci è stata comunicata nel Battesimo, «la vita
non è tolta, ma trasformata», [15] per sempre. Nel Battesimo, infatti, sepolti insieme con Cristo,
riceviamo in Lui risorto il dono di una vita nuova, che abbatte il muro della morte, facendo di essa
un passaggio verso l’eternità.
E se di fronte alla morte, dolorosa separazione che costringe a lasciare gli affetti più cari, non è
consentita alcuna retorica, il Giubileo ci offrirà l’opportunità di riscoprire, con immensa gratitudine,
il dono di quella vita nuova ricevuta nel Battesimo in grado di trasfigurarne il dramma. È
significativo ripensare, nel contesto giubilare, a come tale mistero sia stato compreso fin dai primi
secoli della fede. Per lungo tempo, ad esempio, i cristiani hanno costruito la vasca battesimale a
forma ottagonale, e ancora oggi possiamo ammirare molti battisteri antichi che conservano tale
forma, come a Roma presso San Giovanni in Laterano. Essa indica che nel fonte battesimale
viene inaugurato l’ottavo giorno, cioè quello della risurrezione, il giorno che va oltre il ritmo
abituale, segnato dalla scadenza settimanale, aprendo così il ciclo del tempo alla dimensione
dell’eternità, alla vita che dura per sempre: questo è il traguardo a cui tendiamo nel nostro
pellegrinaggio terreno (cfr. Rm 6,22).
La testimonianza più convincente di tale speranza ci viene offerta dai martiri, che, saldi nella fede
in Cristo risorto, hanno saputo rinunciare alla vita stessa di quaggiù pur di non tradire il loro
Signore. Essi sono presenti in tutte le epoche e sono numerosi, forse più che mai, ai nostri giorni,
quali confessori della vita che non conosce fine. Abbiamo bisogno di custodire la loro
testimonianza per rendere feconda la nostra speranza.
Questi martiri, appartenenti alle diverse tradizioni cristiane, sono anche semi di unità perché
esprimono l’ecumenismo del sangue. Durante il Giubileo pertanto è mio vivo desiderio che non
manchi una celebrazione ecumenica in modo da rendere evidente la ricchezza della
testimonianza di questi martiri.
21. Cosa sarà dunque di noi dopo la morte? Con Gesù al di là di questa soglia c’è la vita eterna,
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che consiste nella comunione piena con Dio, nella contemplazione e partecipazione del suo
amore infinito. Quanto adesso viviamo nella speranza, allora lo vedremo nella realtà.
Sant’Agostino in proposito scriveva: «Quando mi sarò unito a te con tutto me stesso, non esisterà
per me dolore e pena dovunque. Sarà vera vita la mia vita, tutta piena di te». [16] Cosa
caratterizzerà dunque tale pienezza di comunione? L’essere felici. La felicità è la vocazione
dell’essere umano, un traguardo che riguarda tutti.
Ma che cos’è la felicità? Quale felicità attendiamo e desideriamo? Non un’allegria passeggera,
una soddisfazione effimera che, una volta raggiunta, chiede ancora e sempre di più, in una spirale
di avidità in cui l’animo umano non è mai sazio, ma sempre più vuoto. Abbiamo bisogno di una
felicità che si compia definitivamente in quello che ci realizza, ovvero nell’amore, così da poter
dire, già ora: «Sono amato, dunque esisto; ed esisterò per sempre nell’Amore che non delude e
dal quale niente e nessuno potrà mai separarmi». Ricordiamo ancora le parole dell’Apostolo: «Io
sono […] persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né
potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio,
che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,38-39).
22. Un’altra realtà connessa con la vita eterna è il giudizio di Dio, sia al termine della nostra
esistenza che alla fine dei tempi. L’arte ha spesso cercato di rappresentarlo – pensiamo al
capolavoro di Michelangelo nella Cappella Sistina – accogliendo la concezione teologica del
tempo e trasmettendo in chi osserva un senso di timore. Se è giusto disporci con grande
consapevolezza e serietà al momento che ricapitola l’esistenza, al tempo stesso è necessario
farlo sempre nella dimensione della speranza, virtù teologale che sostiene la vita e permette di
non cadere nella paura. Il giudizio di Dio, che è amore (cfr. 1Gv 4,8.16), non potrà che basarsi
sull’amore, in special modo su quanto lo avremo o meno praticato nei riguardi dei più bisognosi,
nei quali Cristo, il Giudice stesso, è presente (cfr.
Mt 25,31-46). Si tratta pertanto di un giudizio diverso da quello degli uomini e dei tribunali terreni;
va compreso come una relazione di verità con Dio-amore e con sé stessi all’interno del mistero
insondabile della misericordia divina. La Sacra Scrittura afferma in proposito: «Hai insegnato al
tuo popolo che il giusto deve amare gli uomini, e hai dato ai tuoi figli la buona speranza che, dopo
i peccati, tu concedi il pentimento […] e ci aspettiamo misericordia, quando siamo giudicati» ( Sap
12,19.22). Come scriveva Benedetto XVI, «nel momento del Giudizio sperimentiamo ed
accogliamo questo prevalere del suo amore su tutto il male nel mondo e in noi. Il dolore dell’amore
diventa la nostra salvezza e la nostra gioia». [17]
Il giudizio, quindi, riguarda la salvezza nella quale speriamo e che Gesù ci ha ottenuto con la sua
morte e risurrezione. Esso, pertanto, è volto ad aprire all’incontro definitivo con Lui. E poiché in
tale contesto non si può pensare che il male compiuto rimanga nascosto, esso ha bisogno di
venire purificato, per consentirci il passaggio definitivo nell’amore di Dio. Si comprende in tal
senso la necessità di pregare per quanti hanno concluso il cammino terreno, solidarietà
nell’intercessione orante che rinviene la propria efficacia nella comunione dei santi, nel comune
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vincolo che ci unisce in Cristo, primogenito della creazione. Così l’indulgenza giubilare, in forza
della preghiera, è destinata in modo particolare a quanti ci hanno preceduto, perché ottengano
piena misericordia.
23. L’indulgenza, infatti, permette di scoprire quanto sia illimitata la misericordia di Dio. Non è un
caso che nell’antichità il termine “misericordia” fosse interscambiabile con quello di “indulgenza”,
proprio perché esso intende esprimere la pienezza del perdono di Dio che non conosce confini.
Il Sacramento della Penitenza ci assicura che Dio cancella i nostri peccati. Ritornano con la loro
carica di consolazione le parole del Salmo: «Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue
infermità, salva dalla fossa la tua vita, ti circonda di bontà e misericordia. […] Misericordioso e
pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore. […] Non ci tratta secondo i nostri peccati e
non ci ripaga secondo le nostre colpe. Perché quanto il cielo è alto sulla terra, così la sua
misericordia è potente su quelli che lo temono; quanto dista l’oriente dall’occidente, così allontana
da noi le nostre colpe» (Sal 103,3-4.8.10-12). La Riconciliazione sacramentale non è solo una
bella opportunità spirituale, ma rappresenta un passo decisivo, essenziale e irrinunciabile per il
cammino di fede di ciascuno. Lì permettiamo al Signore di distruggere i nostri peccati, di risanarci
il cuore, di rialzarci e di abbracciarci, di farci conoscere il suo volto tenero e compassionevole. Non
c’è infatti modo migliore per conoscere Dio che lasciarsi riconciliare da Lui (cfr. 2Cor 5,20),
assaporando il suo perdono. Non rinunciamo dunque alla Confessione, ma riscopriamo la bellezza
del sacramento della guarigione e della gioia, la bellezza del perdono dei peccati!
Tuttavia, come sappiamo per esperienza personale, il peccato “lascia il segno”, porta con sé delle
conseguenze: non solo esteriori, in quanto conseguenze del male commesso, ma anche interiori,
in quanto «ogni peccato, anche veniale, provoca un attaccamento malsano alle creature, che ha
bisogno di purificazione, sia quaggiù, sia dopo la morte, nello stato chiamato purgatorio». [18]
Dunque permangono, nella nostra umanità debole e attratta dal male, dei “residui del peccato”.
Essi vengono rimossi dall’indulgenza, sempre per la grazia di Cristo, il quale, come scrisse San
Paolo VI, è «la nostra “indulgenza”». [19] La Penitenzieria Apostolica provvederà ad emanare le
disposizioni per poter ottenere e rendere effettiva la pratica dell’Indulgenza Giubilare.
Tale esperienza piena di perdono non può che aprire il cuore e la mente a perdonare. Perdonare
non cambia il passato, non può modificare ciò che è già avvenuto; e, tuttavia, il perdono può
permettere di cambiare il futuro e di vivere in modo diverso, senza rancore, livore e vendetta. Il
futuro rischiarato dal perdono consente di leggere il passato con occhi diversi, più sereni, seppure
ancora solcati da lacrime.
Nello scorso Giubileo Straordinario ho istituito i Missionari della Misericordia, che continuano a
svolgere un’importante missione. Possano anche durante il prossimo Giubileo esercitare il loro
ministero, restituendo speranza e perdonando ogni volta che un peccatore si rivolge a loro con
cuore aperto e animo pentito. Continuino ad essere strumenti di riconciliazione e aiutino a
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guardare l’avvenire con la speranza del cuore che proviene dalla misericordia del Padre. Auspico
che i Vescovi possano avvalersi del loro prezioso servizio, specialmente inviandoli laddove la
speranza è messa a dura prova, come nelle carceri, negli ospedali e nei luoghi in cui la dignità
della persona viene calpestata, nelle situazioni più disagiate e nei contesti di maggior degrado,
perché nessuno sia privo della possibilità di ricevere il perdono e la consolazione di Dio.
24. La speranza trova nella Madre di Dio la più alta testimone. In lei vediamo come la speranza
non sia fatuo ottimismo, ma dono di grazia nel realismo della vita. Come ogni mamma, tutte le
volte che guardava al Figlio pensava al suo futuro, e certamente nel cuore restavano scolpite
quelle parole che Simeone le aveva rivolto nel tempio: «Egli è qui per la caduta e la risurrezione di
molti in Israele e come segno di contraddizione – e anche a te una spada trafiggerà l’anima» (Lc
2,34-35). E ai piedi della croce, mentre vedeva Gesù innocente soffrire e morire, pur attraversata
da un dolore straziante, ripeteva il suo “sì”, senza perdere la speranza e la fiducia nel Signore. In
tal modo ella cooperava per noi al compimento di quanto suo Figlio aveva detto, annunciando che
avrebbe dovuto «soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli
scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere»
(Mc 8,31), e nel travaglio di quel dolore offerto per amore diventava Madre nostra, Madre della
speranza. Non è un caso che la pietà popolare continui a invocare la Vergine Santa come Stella
maris, un titolo espressivo della speranza certa che nelle burrascose vicende della vita la Madre di
Dio viene in nostro aiuto, ci sorregge e ci invita ad avere fiducia e a continuare a sperare.
In proposito, mi piace ricordare che il Santuario di Nostra Signora di Guadalupe, a Città del
Messico, si sta preparando a celebrare, nel 2031, i 500 anni dalla prima apparizione della Vergine.
Attraverso il giovane Juan Diego la Madre di Dio faceva giungere un rivoluzionario messaggio di
speranza che anche oggi ripete a tutti i pellegrini e ai fedeli: «Non sto forse qui io, che sono tua
madre?». [20] Un messaggio simile viene impresso nei cuori in tanti Santuari mariani sparsi nel
mondo, mete di numerosi pellegrini, che affidano alla Madre di Dio preoccupazioni, dolori e attese.
In questo Anno giubilare i Santuari siano luoghi santi di accoglienza e spazi privilegiati per
generare speranza. Invito i pellegrini che verranno a Roma a fare una sosta di preghiera nei
Santuari mariani della città per venerare la Vergine Maria e invocare la sua protezione. Sono
fiducioso che tutti, specialmente quanti soffrono e sono tribolati, potranno sperimentare la
vicinanza della più affettuosa delle mamme, che mai abbandona i suoi figli, lei che per il santo
Popolo di Dio è «segno di sicura speranza e di consolazione». [21]
25. In cammino verso il Giubileo, ritorniamo alla Sacra Scrittura e sentiamo rivolte a noi queste
parole: «Noi, che abbiamo cercato rifugio in lui, abbiamo un forte incoraggiamento ad afferrarci
saldamente alla speranza che ci è proposta. In essa infatti abbiamo come un’àncora sicura e
salda per la nostra vita: essa entra fino al di là del velo del santuario, dove Gesù è entrato come
precursore per noi» (Eb 6,18-20). È un invito forte a non perdere mai la speranza che ci è stata
donata, a tenerla stretta trovando rifugio in Dio.
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L’immagine dell’àncora è suggestiva per comprendere la stabilità e la sicurezza che, in mezzo alle
acque agitate della vita, possediamo se ci affidiamo al Signore Gesù. Le tempeste non potranno
mai avere la meglio, perché siamo ancorati alla speranza della grazia, capace di farci vivere in
Cristo superando il peccato, la paura e la morte. Questa speranza, ben più grande delle
soddisfazioni di ogni giorno e dei miglioramenti delle condizioni di vita, ci trasporta al di là delle
prove e ci esorta a camminare senza perdere di vista la grandezza della meta alla quale siamo
chiamati, il Cielo.
Il prossimo Giubileo, dunque, sarà un Anno Santo caratterizzato dalla speranza che non tramonta,
quella in Dio. Ci aiuti pure a ritrovare la fiducia necessaria, nella Chiesa come nella società, nelle
relazioni interpersonali, nei rapporti internazionali, nella promozione della dignità di ogni persona e
nel rispetto del creato. La testimonianza credente possa essere nel mondo lievito di genuina
speranza, annuncio di cieli nuovi e terra nuova (cfr. 2Pt 3,13), dove abitare nella giustizia e nella
concordia tra i popoli, protesi verso il compimento della promessa del Signore.
Lasciamoci fin d’ora attrarre dalla speranza e permettiamo che attraverso di noi diventi contagiosa
per quanti la desiderano. Possa la nostra vita dire loro: «Spera nel Signore, sii forte, si rinsaldi il
tuo cuore e spera nel Signore» (Sal 27,14). Possa la forza della speranza riempire il nostro
presente, nell’attesa fiduciosa del ritorno del Signore Gesù Cristo, al quale va la lode e la gloria
ora e per i secoli futuri.
Dato a Roma, presso San Giovanni in Laterano, il 9 maggio, Solennità dell’Ascensione di Nostro
Signore Gesù Cristo, dell’Anno 2024, dodicesimo di Pontificato.
FRANCESCO
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[1] Agostino, Discorsi, 198 augm., 2.
[2] Cfr. Fonti Francescane, n. 263,6.10.
[3] Cfr. Francesco, Misericordiae Vultus, Bolla di indizione del Giubileo Straordinario della
misericordia, 11 aprile 2015,
nn. 1-3.
[4] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Pastorale Gaudium et spes sulla Chiesa nel
mondo contemporaneo, 7 dicembre 1965, n. 4.
15
[5] Francesco, Lettera Enciclica Laudato si’ sulla cura della casa comune, 24 maggio 2015, n. 50.
[6] Cfr. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2267.
[7] Francesco, Laudato si’, cit., n. 49.
[8] Francesco, Lettera Enciclica Fratelli tutti sulla fraternità e l’amicizia sociale, 3 ottobre 2020, n.
262.
[9] Francesco, Laudato si’, cit., n. 51.
[10] Simbolo niceno: H. Denzinger – A. Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum definitionum et
declarationum de rebus fidei et morum, n. 125.
[11] Ibid.
[12] Simbolo degli Apostoli: H. Denzinger – A. Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum definitionum
et declarationum de rebus fidei et morum, n. 30.
[13] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1817.
[14] Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et spes, cit., n. 21.
[15] Messale Romano, Prefazio dei defunti I.
[16] Agostino, Confessioni, X, 28.
[17] Benedetto XVI, Lettera Enciclica Spe salvi, 30 novembre 2007, n. 47.
[18] Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1472.
[19] Paolo VI, Lettera Apostolica Apostolorum limina, 23 maggio 1974, II.
[20] Nican Mopohua, n. 119.
[21] Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Dogmatica Lumen gentium sulla Chiesa, 21
novembre 1964, n. 68.
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